È di pochi giorni fa una sentenza della Corte di Cassazione relativa all’istituto del congedo parentale e destinata a far discutere: si tratta della sentenza n. 509/2018 pubblicata l’11 gennaio 2018.
Il caso trae origine dall’impugnazione di un licenziamento per giusta causa intimato nei confronti di un lavoratore che aveva chiesto e ottenuto i dieci giorni di congedo parentale e che, durante tale periodo, non aveva trascorso la maggior parte del tempo con il figlio, come appurato dal datore di lavoro che lo aveva fatto seguire da un investigatore.
La difesa del lavoratore si basava essenzialmente su due considerazioni: in primo luogo nella L. 151/2001 non vi è alcun riferimento al fatto che il genitore debba dedicarsi prevalentemente alla cura del minore; in secondo luogo vi è differenza rispetto alle ipotesi di abuso dei permessi ex L. 104/1992, poiché il congedo parentale non avrebbe come finalità l’assistenza, bensì il soddisfacimento dei bisogni affettivi del figlio e la non assimilabilità tra i due istituti risulterebbe confermata anche dal diverso trattamento economico (retribuzione per i permessi di cui alla L. 104/1992 e indennità pari al 30% della retribuzione solo per i primi tre anni di età del figlio per i permessi di cui alla L. 151/2001 e nel caso di specie il figlio aveva più di tre anni).
La Cassazione ha rigettato il ricorso del lavoratore, confermando quanto statuito dai Giudici dei precedenti gradi di giudizio, sulla base dei principi emessi dalla Corte nella precedente sentenza n. 16207/2008 che aveva ritenuto legittimo il licenziamento intimato per abuso del diritto (potestativo) di congedo parentale; ma tale pronuncia si riferiva, a onor del vero, all’ipotesi di un genitore che, durante il periodo di congedo parentale, si dedicava allo svolgimento di un’altra attività lavorativa.
Il Collegio ha però ritenuto che il medesimo ragionamento possa e debba svilupparsi anche nel caso in cui il genitore “trascuri la cura del figlio per dedicarsi a qualunque altra attività che non sia in diretta relazione con detta cura, perché ciò che conta non è tanto quel che il genitore fa nel tempo da dedicare al figlio, quanto piuttosto quello che invece non fa nel tempo che avrebbe dovuto dedicare al minore”. Anche in questo caso, secondo la Corte, la condotta del lavoratore configurerebbe un’ipotesi di abuso del diritto e una lesione della buona fede del datore di lavoro che “si vede privato ingiustamente della prestazione lavorativa del dipendente e sopporta comunque una lesione […] dell’affidamento da lui riposto nel medesimo, mentre rileva l’indebita percezione dell’indennità”.